Gesù Cristo, prigioniero, viene mostrato al popolo da Ponzio Pilato. Ha le mani legate da una corda, trattenuta da un aguzzino alle sue spalle. La corona di spine gli ferisce il capo e la fronte. Il sangue corre copioso attraverso i capelli fino al petto. Indossa un mantello blu violaceo fermato al centro da un fermaglio a gioiello. Il perizoma bianco è drappeggiato con un nodo voluminoso sulla vita. Alla sua figura di uomo di dolore e di mite rassegnazione fanno da contraltare i volti dei carnefici, dalle espressioni caricate, brutali e violente. Il volto di Ponzio Pilato alla sua sinistra, invece, lascia trasparire il dubbio e l’esitazione, il dilemma insito nella scelta di condannare un uomo innocente. L’autore del dipinto è Quentin Messys, un artista fiammingo di grande fama attivo tra fine del XV e inizio del XVI secolo a Lovanio e Anversa. Messys ebbe il ruolo fondamentale di traghettare la tradizione tardomedievale verso il Rinascimento e fu uno dei primi artisti nordici a guardare l’arte italiana dell’epoca. In questo dipinto i volti riflettono le reazioni psicologiche dei personaggi a tal punto da dichiarare una evidente familiarità con le teste grottesche ideate da Leonardo da Vinci, con il quale Massys condivideva l’interesse rinascimentale per la fisiognomica. Oltre che per la caratterizzazione del volto dei suoi modelli, Massys si distingue anche per l’utilizzo di una raffinata retorica gestuale tramite una minuziosa descrizione delle mani e dei loro segni. Altri dettagli colpiscono l’attenzione, come l’originale invenzione del capitello della colonna sullo sfondo, che richiama la corona di spine come strumento del martirio di Cristo. La presenza di questo dipinto a Venezia è attestata già nel tardo Cinquecento tramite la presenza di copie antiche e testimonia il gusto in ambiente veneziano per questa tipologia di opere provenienti dal nord Europa, cui partecipano anche i tre capolavori di Jheronimus Bosch di collezione Grimani, oggi conservati alle Gallerie dell’Accademia.