Il dipinto, rimasto incompiuto probabilmente per la partenza di Gentile Bellini, inviato a Costantinopoli alla corte di Maometto II nel 1479, è tuttavia una delle più notevoli prove delle sue doti di ritrattista, che appunto gli valsero gran fama tra i contemporanei. Particolari come i preziosi tessuti e ricami d’oro del colletto e del corno dovevano certo essere resi con virtuosismo pittorico quasi iper-realista, “alla fiamminga”. Tale impostazione, di alta qualità ma alquanto tradizionale, derivava della occasione ritrattistica ufficiale, che necessitava la collocazione della massima autorità della Repubblica su un elevatissimo e astratto piano simbolico, rigorosamente impersonale e, perciò, privato di emozioni e psicologismi. Data dunque per obbligata la fissità ieratica della posa di profilo, ciò non impedì al pittore di concentrarsi sul volto del doge (è la sola parte abbastanza compiuta), definito in raffinati valori chiaroscurali, con una notevole resa realistica che a noi, specie per quel nasone gonfio, par quasi argutamente ironica.